da ilgiornale.it
Milano - È quasi un format vivente di se stesso,
Linus. Perfetto per impersonare la parte del cattivo. Che poi, tanto
cattivo non è mai. Quasi una traduzione valida tutto l’anno dello
Scrooge dickensiano che interpretava in Natale in casa Deejay.
Certo, non si può dire che sia modesto. Che
si nasconda. Che non sappia di essere bravo. Che sia buono o anche più
semplicemente buonista. Anzi, ne ha per tutti. Ma è un antidoto vivente
alla banalità. Una gioia per chi lo intervista. Eclettico e capace di
svariare su mille temi e settori, ma sempre con una certa ruvidezza
programmatica che è un po’ la sua cifra stilistica. In una parola,
Linus.
Linus, potrei chiederle quale sarà il successo dell’estate.
«Ma è da qualche anno che non rispondo più a questa domanda».
Oppure, potrei chiederle qualcosa sullo sport e sulla maratona.
«Ed
è il tipo di intervista che negli ultimi anni faccio più spesso e che
mi appassiona. Parlo molto più di corsa che di musica».
Invece, guardo il suo curriculum e le chiedo come mai lei non
ha sfondato in televisione. Il suo compagno di colazioni Nicola Savino,
ad esempio, ce l’ha fatta. Lei no.
«Con tutto il rispetto e l’amicizia per Nicola, con cui lavoriamo
benissimo insieme, io non ho mai pensato di andare in televisione a
fare trasmissioni di nicchia o la spalla di qualcuno. Anzi, se lui mi
invita, vado volentieri perché mi diverto. Ma, visto che in radio gioco
in serie A, anzi senza false modestie sono in Champions, non credo
proprio di dover scendere in B pur di andare in televisione».
Non è il discorso della volpe e l’uva? Non è che ha perso
qualche occasione e se ne è pentito? O magari quelle occasioni non le
ha mai avute?
«No, guardi, nel mio piccolo, in Rai ho condotto la trasmissione di commento agli scorsi campionati europei...».
Un capolavoro, se lo lasci dire, rispetto a quella di quest’anno.
«... grazie. E ho ottenuto riscontri positivi di pubblico e critica.
Certo, non c’è la controprova e non vorrei sembrare capitan Fracassa,
ma mi sento parte della generazione dei Fazio, dei Bonolis».
E allora perché ha fatto così poca televisione?
«Perché la tivù si fa nei corridoi delle tivù, a farsi vedere e a ricordare che esisti. Non fa per me».
Funziona così anche nelle case editrici? I libri di Fabio Volo sono andati benissimo. E i suoi?
«I
primi due erano giochi, il terzo - il romanzo - è qualcosa di cui vado
molto, ma molto orgoglioso. Ne sono fiero perché ha la dignità di un
libro vero. Lei pensi che le case editrici ci pubblicano qualsiasi cosa
vogliamo solo per il nostro nome».
Quindi non invidia Volo, che lavora da lei?
«Lo
invidio perché fa film. Io per farne uno me lo sono dovuto produrre e
farmelo su misura in casa: Natale in casa Deejay, per l’appunto».
Da eclettico, c’è qualcosa che le manca?
«Da
ragazzo mi piaceva disegnare. Ora mia moglie mi ha regalato un
cavalletto e i colori, ma con i bimbi, nonostante viviamo in una casa
grande, l’unico spazio mio è di 80 centimetri per 40».
E i dischi? Quando fece Accetta il consiglio scalò le hit parade.
«Ora
hanno regalato una chitarra a mio figlio Filippo che ha dodici anni e
mi piacerebbe studiarla con lui. Ma non è detto che ce la faccia. A
volte, le passioni restano passioni».
Forse non ce la fa perché è molto impegnato. Lei è anche
direttore artistico di Deejay che è la prima radio privata italiana.
Cosa fa nella vita un direttore artistico?
«Lavora alle variazioni sui quattro format radiofonici, eternamente
uguali a se stessi: la coppia pettegola, il tecnico di musica, il
programma giornalistico e il radiodramma. Poi, si può variare un
ingrediente o l’altro, ma sta tutto qui».
Be’, quest’anno su Deejay avete portato Carlo Lucarelli, con i
gialli legati al mondo della musica, quasi una versione radiofonica di
Blu notte. Per la radio è stata una rivoluzione.
«Niente affatto. Lucarelli ha fatto un radiodramma in chiave moderna.
Ma un radiodramma, la più antica delle trasmissioni radiofoniche».
Lo vuole sminuire?
«Nient’affatto. Carlo è un amico
con cui abbiamo già lavorato insieme, persino in un programma di
Celentano. Ed è stato bravissimo nel costruire i racconti. A volte
arrivava in redazione con la puntata ancora da scrivere e si metteva a
un tavolino come se fosse solo, mentre intorno a lui giravano centinaia
di persone, spesso rumorose. Una scena da film».
Questo significa che è una sciocchezza pensare a una radio non
scritta, non preparata, di «cazzeggio» puro? Come vi regolate lei e
Nicola Savino in Deejay chiama Italia che è la trasmissione più
ascoltata dell’etere?
«Ci troviamo bene insieme e spesso gli spunti che prepariamo poi si
sviluppano in automatico. Ma oggi, per esempio, sono depresso per la
povertà e la banalità di un paio di miei interventi. Io credo che nella
nostra professione occorra non sedersi mai. Soprattutto, spostare il
limite sempre un po’ più in là, per crescere. E penso che io e Nicola
stiamo crescendo, soprattutto senza bisogno di venti autori».
Sta pensando a qualche programma in particolare?
«Sto
dicendo che fare un programma alle due del pomeriggio, dopo che una
serie di autori ha lavorato tutta la mattina per te è più facile che
arrivare in radio, prepararsi il programma in due e dire sempre cose
che possono divertire gli ascoltatori, ma senza essere banali».
Sta pensando a un programma in particolare!
«... Poi, Fiorello è bravissimo ed è un fuoriclasse».