giovedì 29 novembre 2007
Radio, una lunga storia d'amore
da aetnanet.org
Secondo l’ultimo rapporto Censis, la radio
risulta essere il terzo medium più seguito dalla popolazione italiana
con una percentuale del 65,4%. Per il più antico (ormai centenario)
mezzo di comunicazione di massa, considerato da molti un oggetto
residuale e di scarso impatto sulle nostre abitudini quotidiane, è un
risultato sorprendente e lusinghiero. Un risultato possibile solo
considerando che la radio è tanto discreta e poco appariscente nella
sua forma, quanto estremamente efficiente nella restituzione del
messaggio rispetto alla tecnologia impegnata. La radio ha rivoluzionato
percezione e produzione del teatro e della musica, oltre a sedimentarsi
nell’immaginario collettivo come autorevole depositaria di notizie e
informazioni, tanto da lasciare ancor oggi di uso comune l’espressione
«L’ha detto la radio». Nella grande avventura musicale del XX secolo il
ruolo giocato dalla radio è stato decisivo per almeno due aspetti.
Ha
impresso una formidabile accelerazione nella diffusione estensiva della
musica, sia dal punto di vista geografico che di repertorio, con
particolar riguardo per tutta la tradizione occidentale colta ed
extracolta. Ha condizionato, almeno a partire dagli anni ’30, la
produzione di nuova musica, sia imponendo vincoli tecnici ed estetici
legati alle esigenze di trasmissione, sia aprendo nel dopoguerra
laboratori di musica elettronica dove almeno due generazioni
dell’avanguardia postbellica hanno inseguito il sogno della nuova
musica. La culla di queste sperimentazioni fu l’Europa, dove nacque un
servizio pubblico radiofonico in grado di elaborare una visione
strategica di quelli che sarebbero potuti essere gli sviluppi e le
potenzialità del mezzo. Molto più pragmatico e lineare lo sviluppo
della radio negli Stati Uniti, dove la struttura privatistica e la
predominanza di bacini di utenza locali individuò rapidamente formati e
reti attraverso i quali la musica trovò formidabile amplificazione e
diffusione (il mito Toscanini, per esempio, si accrebbe
esponenzialmente tramite i concerti della «sua» Nbc Orchestra).
Guglielmo Marconi
La
radio italiana cominciò le sue trasmissioni regolari nel 1924 e si
sviluppò con una certa lentezza in confronto alle consorelle europee,
benché il regime fascista considerasse di primaria importanza questo
mezzo che, insieme al cinema agli albori del sonoro, segnava i tempi
nuovi. Nel 1931 l’Eiar – progenitrice della Rai – aveva circa 200 mila
abbonati su 42 milioni di abitanti; poca cosa in confronto ai 3 milioni
e 300mila dell’Inghilterra e i 3 milioni e 700mila della Germania. A
questo proposito il compositore, direttore d’orchestra, organizzatore
di eventi musicali nonché Onorevole del Regno Adriano Lualdi osservò in
un suo preoccupato intervento alla Camera dei Deputati: «Sarebbe una
situazione un po’ mortificante per un paese che gode fama di andar
pazzo per la musica, se le nostre dolci tiepide profumate notti serene
non spiegassero tante cose. Ad ogni modo è necessario trovar la maniera
di migliorare, e di molto, queste condizioni». E per chiarire il
proprio pensiero, proseguì illustrando quanto si stava facendo,
soprattutto in Germania, per studiare e elaborare un progetto culturale
adatto a questo potentissimo mezzo di diffusione.
«Intendo dire,
lo sforzo – in cui una quantità di maestri, di studiosi e di
specialisti stranieri sono concordi – lo sforzo teso a creare per la
Radio un’arte completamente autonoma, un’arte, cioè, che considerando
la radio com’è infatti, un nuovo strumento avente sue particolari
caratteristiche, ne tenga il debito conto; se ne ispiri quasi, ne
tragga partito per dire, con nuovo mezzo, nuove parole». Le conseguenze
tratte da Lualdi per quanto riguarda l’aspetto musicale furono
particolarmente interessanti, perché ricoprendo egli la veste di
direttore artistico del Festival Internazionale di Musica di Venezia,
si affrettò ad organizzare nel 1932 un concorso di musica radiogenica.
le norme che accompagnavano il bando di concorso testimoniano lo sforzo
teso alla ricerca di uno specifico linguaggio musicale per la radio. Da
segnalare fra i finalisti del Concorso per Musica Radiogenica del
Festival di Venezia, Luigi Dallapiccola (Tre studi per soprano e
piccola orchestra) e Nino Rota (Balli per piccola orchestra), due
compositori che ebbero successivamente percorsi artistici divergenti,
ma da annoverare entrambi fra i nomi significativi del ’900 italiano.
Una sala di registrazione radiofonica
Il
sogno di un’autonoma arte radiofonica ebbe probabilmente il suo
maggiore vigore proprio intorno gli anni ’30 perché quello fu il
decennio di maggiore sviluppo e diffusione del mezzo. Successivamente,
con la Seconda guerra mondiale, la radio verrà arruolata come la più
potente arma della propaganda e, tranne che per le esperienze
dell’Orchestra della Svizzera Romanda nella neutrale Confederazione
Elvetica, tutte le speranze, i progetti e le molte pregevoli
realizzazioni resteranno sotto le macerie della guerra. Di quella lunga
stagione della quale sono rimasti pochissimi documenti sonori,
riteniamo doveroso segnalare almeno un’opera radiofonica prodotta nella
vecchia Europa, Der Lindberghflug (1929) di Bertolt Brecht per la
musica di Paul Hindemith e Kurt Weill. La ricostruzione in forma di
fiction radiofonica del mitico volo transoceanico di Lindberg
rappresenta per il tema, per il trattamento musicale e drammaturgico un
capo d’opera che, al di là dell’altissimo valore degli autori
coinvolti, restituisce in pieno quel tempo di ricerca e speranze, nel
quale la radio veniva intesa come il mezzo in grado di restituire la
contemporaneità.
Il volo di Lindberg ci porta d’altro canto ad
almeno una considerazione su quello che negli stessi anni si agitava
intorno alla radio americana. Abbiamo già accennato al diverso
svolgersi dello sviluppo radiofonico negli Usa e, se andiamo a scorrere
solo qualche documento relativo al 1930 e dintorni, troviamo appunto
una fervida vita musicale che ruota attorno alle stazioni locali
attraverso la costituzione di orchestre per le maggiori emittenti.
Troviamo anche una grande attenzione nelle istituzioni scolastiche
volta alla preparazione di personale artistico in grado di produrre le
musiche destinate alla radiodiffusione, come testimoniato dalle assidue
presenze degli allievi del prestigiosissimo Curtis Institute di
Philadelphia nella trasmissione radiofonica settimanale a loro
riservata. E sono i migliori insegnanti a scendere in campo per guidare
queste esperienze, come Fritz Reiner che allora teneva il corso di
direzione d’orchestra proprio al Curtis e guidava sovente l’orchestra
della scuola nel concerto radiofonico settimanale. Ma non possiamo
concludere questa finestra americana, senza menzionare quello che oggi,
in una prospettiva ormai storicizzata come la nostra, fu il caso più
clamoroso dell’arte radiofonica anteguerra.
Uno studio radiofonico negli anni '60
Si
tratta naturalmente della Guerra dei mondi, messa in scena al Mercury
Theatre della catena radiofonica nazionale Cbs la sera del 30 ottobre
1938, per la regia di Orson Welles. 4,6 milioni di ascoltatori si
riversarono per tramite di un frenetico e sempre più isterico
passaparola sul canale Cbs per seguire in diretta l’invasione marziana
dell’America. Welles aveva allora solo 23 anni, ma seppe assemblare un
perfetto mix di recitazione, effetti e musiche – tutti prodotti in
diretta, stante la arretrata tecnologia dei registratori del tempo – in
grado di terrorizzare un’intera nazione. La musica fu utilizzata da
Welles al pari di altri effetti sonori, contribuendo a creare quel
clima di incertezza, suspense, straniamento che fece credere a molti di
trovarsi a vivere veramente l’invasione marziana. Quello fu
probabilmente il momento della potenza massima del mezzo perché già nel
1941 Theodor W. Adorno evidenziò alcuni problemi nella ricezione della
musica attraverso la radio. La bidimensionalità del suono, i limiti
spaziali nella diffusione dello stesso, le forme intime e privatistiche
della fruizione che limitano ed elidono l’aspetto sociale della musica
erano per il filosofo tedesco questioni che nessuna tecnologia avrebbe
potuto risolvere.
Dal canto suo il compositore americano Virgil
Thomson, che esercitò anche una intensa attività giornalistica e
saggistica, individuò in due articoli del 1945 – significativamente
intitolati Radio is chamber music e Symphonic broadcasts – i limiti e i
pregi della ricezione radiofonica. La musica da camera in senso lato,
includendo così anche i piccoli complessi jazzistici, è per Thomson il
genere radiogenico per eccellenza. Trasparenza della tessitura,
dinamica relativamente limitata e spazio virtuale occupato dagli
strumentisti e dal pubblico sono assolutamente compatibili con la
ricezione radiofonica. Nel secondo articolo Thomson invece mette in
guardia sulla percentuale di verità rappresentata dalla trasmissione di
concerti sinfonici ed operistici. Al di là dell’aspetto visuale, la
compressione della percezione acustica di un evento così complesso e
variegato, non può che essere un’immagine sbiadita della realtà.
Circoscritti i limiti della ricezione musicale attraverso la radio è
necessario rimarcare che, a partire dal dopoguerra, una quantità
sterminata di repertori musicali è stata suonata, registrata e
trasmessa dalle orchestre radiofoniche di tutto il mondo, consentendo
ad almeno tre generazioni di crescere con una cultura (almeno dal punto
di vista auditivo e con i limiti sopra menzionati) che non ha pari
nella storia della ricezione musicale. Il lavoro delle orchestre e in
special modo quello delle orchestre delle radio pubbliche europee è
stato, mi si perdoni l’esempio iperbolico, paragonabile all’effetto che
l’invenzione della stampa ha avuto sull’alfabetizzazione.
Una radio oggi
Il
sempre più rapido progredire delle tecniche di registrazione e
riproduzione dei suoni amplificherà attraverso i dischi questo fenomeno
che, nel campo della musica leggera, avvierà un marcato processo di
industrializzazione e globalizzazione. La musica pop diventerà il
linguaggio globale dei giovani nel mondo e i Beatles ne saranno i
profeti. Parallelamente, negli anni ’50, nacquero presso le principali
emittenti europee (Parigi, Milano, Colonia) studi di musica elettronica
dove i maggiori esponenti delle avanguardie musicali avevano la
possibilità di sperimentare e applicare le proprie teorie. Nel 1956,
Luciano Berio, presentando il neonato Studio di Fonologia della Rai di
Milano, citò questo pensiero di J.R. Oppenheimer; «tanto gli uomini
dell’arte che quelli della scienza vivono sempre alla soglia del
mistero, circondati da esso; gli uni e gli altri, nella misura della
loro creazione, devono cercare di armonizzare ciò che è nuovo con ciò
che è familiare, cercare di raggiungere l’equilibrio fra la novità e la
sintesi, devono combattere per fare un ordine parziale in un caos
totale». e lo stesso Berio così concludeva: «In ogni caso e in
qualsiasi momento il compositore continua a produrre nuove opere, a
perfezionare la qualità della sua comunicazione estetica e a garantire
al suo lavoro una adesione continua all’uomo del suo tempo».
Così
della lunga e feconda esperienza milanese ci piace ricordare più che le
opere musicali «pure» due produzioni radiofoniche che furono, se così
si può dire, una sintesi applicativa dei fermenti che animavano quegli
anni. Si tratta dell’Omaggio a Joyce di Luciano Berio e Umberto Eco e
di Ritratto di città di Roberto Leydi con le musiche di Luciano Berio e
Bruno Maderna. L’impatto delle sperimentazioni musicali «pure»
effettuate negli studi di fonologia e musica elettronica accelerò
invece una mutazione sensibile nell’idea stessa di evento musicale,
assecondando in parte quelle che erano le più estreme e nichilistiche
conclusioni delle avanguardie attive nei ’50 e primi ’60, là dove il
progetto e il testo erano da considerarsi sostanza dell’opera piuttosto
che l’effettivo svolgersi dell’evento musicale. La fine della storia e
dell’arte così come postulato in quei tempi non avvenne, o meglio, si
passò oltre, e così ritengo particolarmente appropriata questa
riflessione di Benjamin Britten del 1964, nella quale il compositore
inglese cercò di ristabilire alcuni criteri indispensabili a preservare
la pienezza della fruizione musicale al tempo della sua riproducibilità.
«Chiunque,
in qualunque luogo, in qualsiasi momento può ascoltare la Messa in si
minore di Bach alla sola condizione di possedere una macchina. Non è
richiesta qualificazione di alcun genere – fede, virtù, educazione,
esperienza, età... La musica è accessibile per tutti, se io dico che
l’altoparlante è il principale nemico della musica, non intendo dire
che io sia ingrato a questo come strumento di educazione e studio, o
come evocatore di memorie. Ma che questo non è parte di una vera
esperienza musicale. Riguardo a questa è un semplice sostituto, e oltre
tutto pericoloso in quanto deludente. La musica richiede di più
all’ascoltatore che il semplice possesso di un registratore o di una
radio a transistor. Richiede qualche sforzo, un po’ di preparazione, un
viaggio in un luogo speciale, il risparmiare per l’acquisto di un
biglietto, qualche studio casalingo sul programma forse, qualche
chiarificazione delle orecchie e focalizzazione degli istinti. Richiede
molto più sforzo da parte dell’ascoltatore che dagli altri vertici del
triangolo, questo sacro triangolo composto dal compositore, l’esecutore
e l’ascoltatore». Viva la radio – insomma – fedele compagna delle
nostre giornate, generosa dispensatrice di tutte le musiche del mondo,
ma non scordiamo mai che la Musica vive con noi e per vivere ha bisogno
di noi e della nostra passione, sempre.
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