mercoledì 28 novembre 2007
Logoi: discorsi intorno all'esistenza di sé stessi.
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Qui a fianco, uno dei famosi "concetti spaziali" di Lucio Fontana. Quando pensi a un logo, quello che inizia a frullarti per la testa è meno di un semplice taglio nel bianco. Meno, molto meno. Discorso troppo lungo, signori. Perchè un logo è. Un logo è sintesi di quello che sei. Che vorresti essere. Un logo sono le tue radici e il tuo orizzonte. Estremo gesto simbolico come il fatidico Gohonzon nel Buddismo di Nichiren Daishonin e della sua Devota Soka Gakkai. Un
logo è un cazzo. Uno sberleffo messo lì, perchè qualcuno un giorno,
nella folla, su un marciapiede puzzolente della City o dall'angolo più
infestato della Corea possa riconoscerti. Un logo è il baffo della Nike, la M
di McDonald's, lo scudo del comune di Roma. Un logo è quell'altro scudo,
quello crociato della Democrazia Cristiana. La Croce, la Falce, il
Martello, le Cippe disegnate a scuola sui muri dei cessi, il Fascio, il Cuore con la Freccia, la T del tabacchi di turno, fluorescente nella notte, quando sei rimasto senza cicche... Simboli.
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Un logo - la creazione di un brand e il lavoro concettuale che ci sta dietro - deve pur avere una qualche proprietà divina. Un logo dev'essere Dio, se lo consideriamo come ultima sintesi tra la Filosofia e l'Architettura. Un
logo - se ben riusciro ed equilibrato - è come uno di quegli spazi di
bellezza e totalità che Borges chiamava "Aleph": uno squarcio in sè
perfetto.
La musica è Thievery Corporation. Il guru del Brand Design italiano, indiscutibilmente: Antonio Romano.
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