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«Anche oggi dobbiamo fare quei cento passi»
[senza nome]

da L'Unità

“Contateli, sono cento anche questi”. Carlo Cosmelli insegna nella facoltà di Fisica dell'Università La Sapienza di Roma. Un professore militante, di quelli che nel 2008 firmarono la petizione contro l'ingresso di papa Ratzinger nell'ateneo. È sua e dell'associazione Violaverso (www.violaverso.org) l'idea di tenere aperta la facoltà domenica pomeriggio, 9 maggio, a 32 anni dalla morte di Peppino Impastato, in una giornata finalmente assolata, tra biciclette in festa e bandiere fuori dalle macchine, da penultima giornata di campionato. La gente, però, arriva lo stesso. Chi non è riuscito a partire da Roma per la manifestazione annuale di Cinisi è venuto qui. Giovani, soprattutto. Tanti. A occhio, almeno duecento. Cosmelli li accoglie uno a uno, sotto la statua di Milton e Galileo, a due passi dalla rampa di scale. Indica con il dito i cento passi disegnati che partono dal cortile della facoltà, fino alle aule del primo piano. Orme nere, attaccate al pavimento con l'adesivo, per ricordare la distanza che c'era tra la casa di Peppino Impastato e quella di Don Tano Badalamenti, il boss di Cosa Nostra che ne ordinò la morte con un attentato dinamitardo sui binari del treno.


Tutt'attorno, sui muri della facoltà, l'elenco con i nomi delle vittime della mafia. E' seguendo quei nomi che si arriva all' “Aula Amaldi” dove, tra panche di legno e ringhiere verdi, ha inizio un evento che sembra un incrocio tra un concerto e una messa. “Cos'ha in comune la fisica con la magistratura che lotta contro la mafia? Il rispetto delle leggi e delle regole”, ripete Cosmelli, introducendo il dibattito e spiegando il perché del luogo prescelto, davanti ai poster di Galileo, Einstein e Copernico, le teche con i modellini dell'atomo e del pendolo di Focault. Intanto suona la musica: dagli altoparlanti, la canzone dei Modena City Ramblers per Peppino, che i ragazzi conoscono a memoria e che fu la colonna sonora del film di Marco Tullio Giordana a cui un'intera generazione (quella di chi oggi ha l'età di Peppino il giorno della sua morte: trent'anni) deve l'incontro con la storia del fondatore di Radio Aut. Partono le registrazioni della satira radiofonica che fece tremare la mafia locale: gli sketch su Don Tano Seduto e Mafiopoli suonano divertenti e lugubri insieme. Mentre si alternano le foto di Peppino sul maxischermo: la barba incolta, i capelli spettinati, i maglioni a collo alto. Poi inizia la lettura intensa e triste dei versi di Umberto Santino, con la voce di Stella Maggi, ripetuti in coro dagli studenti in platea: “Ricordati di ricordare, perché dove non è arrivata la giustizia arrivi la memoria”. Si entra, lentamente, in un'altra dimensione. Di lutto, inevitabile.

Prende posto tra i relatori, intanto, il procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, e si fa largo il sollievo di avere ancora qualcuno in carnee ossa con cui parlare del presente e del futuro delle lotte e dei sogni. Scoppia un applauso liberatorio. Accanto a Ingroia c'è Paolo Briguglia, stretto in una felpa nera buttata su un paio di jeans. È lui il giovane attore palermitano che nel film di Giordana interpreta Giovanni Impastato, il fratello di Peppino. Giovanni, quello vero, intanto si collega con “La Sapienza” via Skype dalla manifestazione di Cinisi, quest'anno più intensa e partecipata del solito, perché coincide con l'attribuzione all'Associazione Impastato della casa di Tano Badalamenti, finalmente assegnata a chi di dovere dopo la confisca. “Sono orgoglioso della vostra manifestazione romana”, scandisce . “Bisogna reagire alla rassegnazione. Le persone rassegnate mi fanno paura perché non hanno bisogno della verità. E quando si perde il bisogno della verità si spalancano le porte alla mafia”. Intanto decolla il dibattito sull'attualità di Peppino. È Ingroia che tutti vogliono sentire.“Non ho mai conosciuto Peppino personalmente. Ma ho conosciuto quasi subito suo fratello Giovanni. Ero uno studente di Giurisprudenza, iniziai a occuparmi di mafia e diventai presto socio del Centro Studi dedicato a Peppino, gestito dal fratello, istituito subito dopo l'omicidio”, spiega Ingroia, giacca blu, camicia a righe, con la solita composta e galante passione.

La platea ascolta assorta. Nessuno dice una parola, nessuno si alza dalle panche,nessun telefonino squilla, in molti registrano l'evento con le telecamerine o prendono appunti. “Nel Centro Impastato diventai responsabile del settore cinema. Organizzavamo rassegne, eventi. E con Giovanni Impastato pensammo subito ad un film. Era necessario un film per far conoscere a tutti la storia di Peppino”. Ingroia insiste sugli aspetti unici, irripetibili di questa storia di antimafia: “Peppino non era un uomo delle istituzioni, non era neanche un vero e proprio giornalista. Era un ragazzo che si era costruito un ruolo tutto suo. Aveva messo insieme un gruppo di giovani e una radio. In quegli anni di contestazione divenne un punto di riferimento nell'ambiente degli studenti, che difficilmente avrebbero preso come modello un uomo dello Stato. Prendere come modello un ragazzo come lui, invece, fu naturale. La forza dirompente ed eversiva che ebbe in un ambiente come Cinisi fu questa: non aveva il dovere di ribellarsi al potere mafioso. Anzi, avrebbe dovuto adeguarsi a quell'ambiente, perché veniva da una famiglia mafiosa. Invece divenne un antimafioso. E peraltro un antimafioso innovativo. Non era serioso, ma irridente. Usava la satira, gli sfottò, le provocazioni e questo costituì uno scandalo”.

Ingroia aggiunge che fu proprio questo modo nuovo di fare antimafia che portò i mafiosi a nascondere la matrice del suo omicidio, fino alla costruzione della tesi dell'attentato e del “Peppino terrorista”. “Raramente i mafiosi si pongono il problema di nascondere la propria mano in un omicidio. Quando la mafia uccide si deve sapere. Invece in questo caso hanno simulato un attentato. E questo testimonia che i mafiosi si posero subito il problema che Peppino potesse diventare un simbolo antimafia e creare emulazione. Fin da subito la mafia aveva paura di Peppino da morto, così come ne ebbe paura da vivo”. Le conclusioni del procuratore aggiunto di Palermo sono sul presente: “La mafia non è sconfitta, certo. Ma la Sicilia di oggi non è più quella di allora. Sono stati fatti dei grossi passi in avanti. Oggi i commercianti di Palermo, la capitale del racket, si ribellano contro il pizzo. Ma la mafia si è fatta liquida. E se la Sicilia è meno mafiosa di prima, l'Italia è più mafiosa. Il fenomeno mafioso si è esteso al nord, in Emilia Romagna e nel Lazio. Ma anche all'estero: pensiamo agli attentati della 'ndrangheta a Duisburg. La lotta antimafia si deve attrezzare a questa integrazione e federazione tra le diverse mafie e al carattere transnazionale della mafia”. Ecco l'appello finale di Ingroia, che infiamma la platea di rabbia e speranza. “Serve un modello di cittadino impegnato, come Peppino Impastato, oggi più che mai, in risposta al suddito teledipendente pronto a omologarsi. Servono cittadini attivi, riflessivi. Non solo tifosi, ma giocatori della squadra della legalità. Se i giocatori sono in tanti si evita l'isolamento dei pochi e si può anche vincere qualche partita”. Ingroia riparte per Palermo, firmando autografi e stringendo mani.

Il dibattito, intanto,prosegue con il monito di Antonio Turri, ex poliziotto, minacciato più volte dalla mafia e referente di Libera nel Lazio. “La mafia non è solo al Sud. Ce l'abbiamo anche qui a Roma, o a pochi chilometri da qui, come a Fondi. Come si combatte? Con l'amore per il proprio territorio. La nostra risposta deve essere compatta: non ci dobbiamo disinteressare di quello che ci succede attorno. I mafio sitemono iniziative come questa di stasera. L'antimafia dei ragazzi,dei preti come don Luigi Ciotti”. Si spengono le luci e il proiettore fa partire il film di Giordana. Paolo Briguglia ricorda il set a Cinisi, la notte in cui girarono la famosa scena dei due fratelli sotto il balcone di Badalamenti: “Erano le tre e mezzo di notte. In paese era tutto chiuso. Non si vedeva un'anima, se non noi che lavoravamo al film. Luigi Lo Cascio ha preso a gridare come un ossesso. Lui gridava e il silenzio attorno era pesante come il piombo. È lì che ho sentito che stavo facendo qualcosa di dirompente. Che il nostro non era solo un film sgarrupato, ma una cosa potente”. Lo abbiamo visto tutti, quel film. Quella scena, per dire, è facile da ritrovare su You Tube. Rivediamola ancora. Una,dieci, cento volte. Aiuta. Indica bene il cammino da fare.
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