martedì 11 maggio 2010
«Anche oggi dobbiamo fare quei cento passi»
da L'Unità
“Contateli, sono cento anche questi”. Carlo Cosmelli insegna nella
facoltà di Fisica dell'Università La Sapienza di Roma. Un professore
militante, di quelli che nel 2008 firmarono la petizione contro
l'ingresso di papa Ratzinger nell'ateneo. È sua e dell'associazione
Violaverso (www.violaverso.org) l'idea di tenere aperta la facoltà
domenica pomeriggio, 9 maggio, a 32 anni dalla morte di Peppino
Impastato, in una giornata finalmente assolata, tra biciclette in festa e
bandiere fuori dalle macchine, da penultima giornata di campionato. La
gente, però, arriva lo stesso. Chi non è riuscito a partire da Roma per
la manifestazione annuale di Cinisi è venuto qui. Giovani, soprattutto.
Tanti. A occhio, almeno duecento. Cosmelli li accoglie uno a uno, sotto
la statua di Milton e Galileo, a due passi dalla rampa di scale. Indica
con il dito i cento passi disegnati che partono dal cortile della
facoltà, fino alle aule del primo piano. Orme nere, attaccate al
pavimento con l'adesivo, per ricordare la distanza che c'era tra la casa
di Peppino Impastato e quella di Don Tano Badalamenti, il boss di Cosa
Nostra che ne ordinò la morte con un attentato dinamitardo sui binari
del treno.
Tutt'attorno, sui muri della facoltà, l'elenco con i
nomi delle vittime della mafia. E' seguendo quei nomi che si arriva all'
“Aula Amaldi” dove, tra panche di legno e ringhiere verdi, ha inizio un
evento che sembra un incrocio tra un concerto e una messa. “Cos'ha in
comune la fisica con la magistratura che lotta contro la mafia? Il
rispetto delle leggi e delle regole”, ripete Cosmelli, introducendo il
dibattito e spiegando il perché del luogo prescelto, davanti ai poster
di Galileo, Einstein e Copernico, le teche con i modellini dell'atomo e
del pendolo di Focault. Intanto suona la musica: dagli altoparlanti, la
canzone dei Modena City Ramblers per Peppino, che i ragazzi conoscono a
memoria e che fu la colonna sonora del film di Marco Tullio Giordana a
cui un'intera generazione (quella di chi oggi ha l'età di Peppino il
giorno della sua morte: trent'anni) deve l'incontro con la storia del
fondatore di Radio Aut. Partono le registrazioni della satira
radiofonica che fece tremare la mafia locale: gli sketch su Don Tano
Seduto e Mafiopoli suonano divertenti e lugubri insieme. Mentre si
alternano le foto di Peppino sul maxischermo: la barba incolta, i
capelli spettinati, i maglioni a collo alto. Poi inizia la lettura
intensa e triste dei versi di Umberto Santino, con la voce di Stella
Maggi, ripetuti in coro dagli studenti in platea: “Ricordati di
ricordare, perché dove non è arrivata la giustizia arrivi la memoria”.
Si entra, lentamente, in un'altra dimensione. Di lutto, inevitabile.
Prende
posto tra i relatori, intanto, il procuratore aggiunto di Palermo,
Antonio Ingroia, e si fa largo il sollievo di avere ancora qualcuno in
carnee ossa con cui parlare del presente e del futuro delle lotte e dei
sogni. Scoppia un applauso liberatorio. Accanto a Ingroia c'è Paolo
Briguglia, stretto in una felpa nera buttata su un paio di jeans. È lui
il giovane attore palermitano che nel film di Giordana interpreta
Giovanni Impastato, il fratello di Peppino. Giovanni, quello vero,
intanto si collega con “La Sapienza” via Skype dalla manifestazione di
Cinisi, quest'anno più intensa e partecipata del solito, perché coincide
con l'attribuzione all'Associazione Impastato della casa di Tano
Badalamenti, finalmente assegnata a chi di dovere dopo la confisca.
“Sono orgoglioso della vostra manifestazione romana”, scandisce .
“Bisogna reagire alla rassegnazione. Le persone rassegnate mi fanno
paura perché non hanno bisogno della verità. E quando si perde il
bisogno della verità si spalancano le porte alla mafia”. Intanto decolla
il dibattito sull'attualità di Peppino. È Ingroia che tutti vogliono
sentire.“Non ho mai conosciuto Peppino personalmente. Ma ho conosciuto
quasi subito suo fratello Giovanni. Ero uno studente di Giurisprudenza,
iniziai a occuparmi di mafia e diventai presto socio del Centro Studi
dedicato a Peppino, gestito dal fratello, istituito subito dopo
l'omicidio”, spiega Ingroia, giacca blu, camicia a righe, con la solita
composta e galante passione.
La platea ascolta assorta. Nessuno
dice una parola, nessuno si alza dalle panche,nessun telefonino squilla,
in molti registrano l'evento con le telecamerine o prendono appunti.
“Nel Centro Impastato diventai responsabile del settore cinema.
Organizzavamo rassegne, eventi. E con Giovanni Impastato pensammo subito
ad un film. Era necessario un film per far conoscere a tutti la storia
di Peppino”. Ingroia insiste sugli aspetti unici, irripetibili di questa
storia di antimafia: “Peppino non era un uomo delle istituzioni, non
era neanche un vero e proprio giornalista. Era un ragazzo che si era
costruito un ruolo tutto suo. Aveva messo insieme un gruppo di giovani e
una radio. In quegli anni di contestazione divenne un punto di
riferimento nell'ambiente degli studenti, che difficilmente avrebbero
preso come modello un uomo dello Stato. Prendere come modello un ragazzo
come lui, invece, fu naturale. La forza dirompente ed eversiva che ebbe
in un ambiente come Cinisi fu questa: non aveva il dovere di ribellarsi
al potere mafioso. Anzi, avrebbe dovuto adeguarsi a quell'ambiente,
perché veniva da una famiglia mafiosa. Invece divenne un antimafioso. E
peraltro un antimafioso innovativo. Non era serioso, ma irridente. Usava
la satira, gli sfottò, le provocazioni e questo costituì uno scandalo”.
Ingroia
aggiunge che fu proprio questo modo nuovo di fare antimafia che portò i
mafiosi a nascondere la matrice del suo omicidio, fino alla costruzione
della tesi dell'attentato e del “Peppino terrorista”. “Raramente i
mafiosi si pongono il problema di nascondere la propria mano in un
omicidio. Quando la mafia uccide si deve sapere. Invece in questo caso
hanno simulato un attentato. E questo testimonia che i mafiosi si posero
subito il problema che Peppino potesse diventare un simbolo antimafia e
creare emulazione. Fin da subito la mafia aveva paura di Peppino da
morto, così come ne ebbe paura da vivo”. Le conclusioni del procuratore
aggiunto di Palermo sono sul presente: “La mafia non è sconfitta, certo.
Ma la Sicilia di oggi non è più quella di allora. Sono stati fatti dei
grossi passi in avanti. Oggi i commercianti di Palermo, la capitale del
racket, si ribellano contro il pizzo. Ma la mafia si è fatta liquida. E
se la Sicilia è meno mafiosa di prima, l'Italia è più mafiosa. Il
fenomeno mafioso si è esteso al nord, in Emilia Romagna e nel Lazio. Ma
anche all'estero: pensiamo agli attentati della 'ndrangheta a Duisburg.
La lotta antimafia si deve attrezzare a questa integrazione e
federazione tra le diverse mafie e al carattere transnazionale della
mafia”. Ecco l'appello finale di Ingroia, che infiamma la platea di
rabbia e speranza. “Serve un modello di cittadino impegnato, come
Peppino Impastato, oggi più che mai, in risposta al suddito
teledipendente pronto a omologarsi. Servono cittadini attivi,
riflessivi. Non solo tifosi, ma giocatori della squadra della legalità.
Se i giocatori sono in tanti si evita l'isolamento dei pochi e si può
anche vincere qualche partita”. Ingroia riparte per Palermo, firmando
autografi e stringendo mani.
Il dibattito, intanto,prosegue con
il monito di Antonio Turri, ex poliziotto, minacciato più volte dalla
mafia e referente di Libera nel Lazio. “La mafia non è solo al Sud. Ce
l'abbiamo anche qui a Roma, o a pochi chilometri da qui, come a Fondi.
Come si combatte? Con l'amore per il proprio territorio. La nostra
risposta deve essere compatta: non ci dobbiamo disinteressare di quello
che ci succede attorno. I mafio sitemono iniziative come questa di
stasera. L'antimafia dei ragazzi,dei preti come don Luigi Ciotti”. Si
spengono le luci e il proiettore fa partire il film di Giordana. Paolo
Briguglia ricorda il set a Cinisi, la notte in cui girarono la famosa
scena dei due fratelli sotto il balcone di Badalamenti: “Erano le tre e
mezzo di notte. In paese era tutto chiuso. Non si vedeva un'anima, se
non noi che lavoravamo al film. Luigi Lo Cascio ha preso a gridare come
un ossesso. Lui gridava e il silenzio attorno era pesante come il
piombo. È lì che ho sentito che stavo facendo qualcosa di dirompente.
Che il nostro non era solo un film sgarrupato, ma una cosa potente”. Lo
abbiamo visto tutti, quel film. Quella scena, per dire, è facile da
ritrovare su You Tube. Rivediamola ancora. Una,dieci, cento volte.
Aiuta. Indica bene il cammino da fare.
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