da dazebao.org
«L’intervista è come una battaglia navale. Fai una domanda e scopri
che hai colpito un vascello. Con un’altra, invece, affondi una
portaerei. Soprattutto in diretta, gli scrosci d’acqua sono numerosi».
A dirlo è Marino Sinibaldi, vicedirettore di Radio tre e conduttore
radiofonico di Fahrenheit, che ha partecipato al convegno “L’intervista
fonte di documentazione” per fare il punto sul contributo
dell’intervista come fonte orale nel giornalismo.
Oggi le interviste sono più che altro “bites of
sound”. Morsi di suono. Secondo Sinibaldi bisogna recuperare uno stile
più posato, meditato, per arrivare a essere “maieutici”, a tirare fuori
come levatrici/levatori provetti la verità dall’intervistato.
Soprattutto in un mezzo come la radio, l’intervista è arte
dell’ascolto. «Il genere è problematico oggi - spiega il conduttore
radiofonico – perché c’è una crisi generale dell’ascolto anche per
mancanza di tempo (del resto, già il Leopardi ai suoi tempi lamentava
il cattivo stato di civiltà degli italiani che non sapevano ascoltare).
Così si è caduti sempre più nel cosiddetto “titolismo”, che racchiude
tutto nello stile apodittico di una battuta (meglio se esagerata e
vagamente tendenziosa). L’intervista in pillole, purtroppo, rimuove il
percorso attraverso cui si arriva alla sentenza. «L’argomentazione più
semplice e aggressiva non funziona – ha aggiunto Sinibaldi – in temi
controversi come la bioetica che richiederebbero un approfondimento.
Alla verità ci si arriva gradualmente, pronunciando anche parole
approssimative che si definiscono durante il percorso delle domande». I
modelli ideali, inutile dirlo, sono Socrate, ma anche Leopardi che
tempesta «il venditore di almanacchi» di interrogativi e Bertold Brecht
(nella sua poesia su Lao Tze loda il doganiere che sa strappare la
saggezza al maestro dei Ching). A Radio tre, per tradizione,
l’intervista è lunga. Gli ultimi a essere ascoltati per ben 15 ore sono
stati Pasolini e La Capria. «In controtendenza, anche alcuni giornali –
ha concluso Sinibaldi - stanno ritrovando il gusto di questo tipo di
intervista che è una specie di insistito “menage a trois” tra
intervistatore, intervistato e lettore».
Giampiero
Gramaglia, il direttore dell’Ansa, ha chiarito, invece, ruolo e limiti
dell’intervista in un’agenzia stampa. Alla radio ci si perde nella voce
dell’intervistato come nelle “Mille e una notte” ci si innamora di una
donna senza averla mai vista. In tivù, come nel Dolce stilnovo,
l’occhio («il guardo») è il tramite che focalizza il «sembiante»
dell’intervistato. «In agenzia, dice semplicemente Gramaglia,
l’intervista è gutturale. È arte della risposta, non della domanda come
alla radio. Le domande non compaiono nemmeno. In un articolo d’agenzia
non si trasmette certo il bla-bla del contesto, perché quel che conta è
la notizia. La mimica del personaggio e il tono della voce sono
annullati».
Il direttore dà alcuni dati per indicare la
rarità del genere. L’Ansa trasmette ogni giorno 3500 titoli, più di 3
milioni in un anno. Nel 2008 solo otto titoli erano interviste.
Di
solito si adotta la formula delle tre domande in 30 righe. Ma in
occasioni particolari se ne preparano di più lunghe. L’anno scorso,
l’intervista al terrorista Carlos, in occasione dell’anniversario della
morte di Aldo Moro, è stata ripresa da tutti i giornali. Quella a
Andreotti per i suoi 90 anni, invece, non ha avuto successo, anche se
poi tutte le testate hanno parlato del suo archivio». Il direttore
spiega inoltre i motivi per cui l’intervista non è proprio il genere
più congeniale all’agenzia. «Il fatto è che il giornale non cerca un
prodotto omologato. Ognuno vuole la propria».
Dulcis
in fundo, Dario Laruffa, volto noto del Tg2, ha ammesso che
«l’intervista nei telegiornali non esiste più». In compenso, abbondano
le dichiarazioni che avvengono secondo il solito rito: «Si vede la
selva di microfoni con logo che si assiepa davanti al politico di turno
ormai assuefatto al nuovo codice di linguaggio». Sono i tempi,
contingentati, a imporre questo tipo di informazione.
«Ormai nemmeno
Fabio Fazio, Gigi Marzullo o Daria Bignardi fanno vere interviste
giornalistiche, ha precisato il conduttore. Chi va lì è solo per
calcare la scena e promuovere il proprio libro o spettacolo. Le uniche
vere sono quelle di Lucia Annunziata su Raitre». I talk show, poi, sono
ridondanti di voci. A questo proposito Aldo Biscardi diceva: “Non
parlate assieme più di due per volta”. Anche questa è televisione.