Lhasa - Si intensificano le
manifestazioni e gli scontri tra tibetani e polizia per le celebrazioni
del capodanno (25 febbraio) e per la ricorrenza del 50 esimo
anniversario dalla “rivolta fallita”
Una
radio che fornisce in modo accurato e puntale notiziari quotidiani ai
quei Paesi asiatici i cui governi vietano il libero accesso alla stampa
indipendente. È questa la missione di Radio Free Asia, un’emittente
nata nel marzo del 1996 da un’idea dell’ex presidente Richard Richter,
sotto l’egida del Broadcasting Board of Governors.
Radio Free Asia
ha il suo quartier generale a Washington e offre quotidianamente un
servizio di breaking news che si articola con giornali radio in 9
differenti lingue e dialetti, tra cui il Mandarino, il Tibetano, il
Cantonese, il Khmer cambogiano. L’emittente può contare sul lavoro
coordinato di 6 uffici, localizzati nelle principali capitali asiatiche
quali Hong Kong, Taipei, Bangkok, Phnom Penh, Dharamsala (India) e
Ankara.
“Il nostro lavoro?- si domanda il presidente fondatore
Richard Richter - Molto semplice: quello di portare news e informazioni
sul proprio Paese a quelle popolazioni alle quali è vietato dai governi
locali l’accesso all’informazione libera”.
In una vignetta comparsa
sul China Daily il 27 gennaio 1997 Radio Free Asia è rappresentata come
“Il gentleman dalla lingua lunga”, un signore di mezza età
elegantemente vestito, con papillon e occhialini tondi, ma con una
lingua tanto lunga e biforcuta da forare il microfono e attraversarlo.
Un’immagine emblematica del concetto cinese di informazione non
governativa in casa propria.
Radio Free Asia porta alla ribalta
proprio in questi giorni il problema del decennale contenzioso
Tibet-Cina. Dall’inizio di febbraio gli scontri tra polizia e gruppi di
manifestanti per l’indipendenza della regione sono diventanti sempre
più frequenti, con arresti e incursioni di guardie armate in case,
locali e fin sotto i templi.
Per il Tibet questo è un momento
storico gravido di profondi significati politici e religiosi: la
tensione di questi giorni è in parte dovuta all’avvicinarsi della
ricorrenza di più date legate alla memoria di avvenimenti importanti
per la regione, non per ultimo il capodanno tibetano, che quest’anno
cade il prossimo 25 febbraio. “Alcuni tibetani qui a Pechino – spiega a
IdeeRadio Beniamino Natale, corrisponde Ansa dalla Cina - dicono che
c’è molto l’aria di boicottare le celebrazioni ufficiali per il
capodanno di Lhasa, come gesto di silenziosa protesta per un momento
drammatico in cui non vi è nulla da festeggiare” Ma non solo, il
prossimo mese di marzo saranno ricordati i 50 anni dalla fallita
rivolta dei tibetani contro i cinesi nel 1959, a seguito della quale il
Dalai Lama vive in esilio nella città indiana di Dharamsala. Inoltre
ricorre il 14 marzo l’anniversario della rivolta che lo scorso anno
infuriò per le strade della capitale, diffondendosi ben presto fra le
comunità tibetane che abitano le regioni cinesi più occidentali nelle
province di Gansu, Sichuan e Qinghai.
La tensione dunque è più che
mai alta in questi giorni: un video diramato su facebook mi informa
sulla capillarità del controllo territoriale da parte delle forze
armate cinesi, che riescono ad ingaggiare conflitti a fuoco con inermi
monaci tibetani in fila indiana sulla cresta di una montagna, ad oltre
5 mila metri di quota.
“Sembra siano state prese severe misure di
sicurezza in una serie di aree – dice Beniamino Natale - a Lhasa e in
altre 3 zone a popolazione tibetana. Nel Sichuan è scoppiata la
settimana scorsa una rivolta alla quale sono seguiti 20-25 arresti”. “
Altri colleghi giornalisti” continua il corrispondente dell’Ansa “hanno
tentato di raggiungere il monastero di Labrang, teatro di violente
proteste lo scorso anno, ma sono stati fermati e obbligati a tornare
indietro”.
Il quotidiano web Times online riferisce che poliziotti,
sia in divisa, sia in borghese, assieme a membri della Polizia Armata
Popolare, dall’inizio di febbraio hanno iniziato a compiere
rastrellamenti nelle case da tè frequentate dai giovani tibetani.
In
un appello lanciato in rete dai tibetani si legge: “Per piangere i
morti del 2008, i molti eroi che hanno sacrificato le loro vite, in
segno di vicinanza a tutti i tibetani, non dobbiamo festeggiare il
nuovo anno ma, a mani giunte, dimostrare la nostra solidarietà”.
Nella
provincia del Qinghai intanto i messi governativi hanno già iniziato a
far firmare documenti alla popolazione in cui si dichiara la propria
astensione da qualsiasi forma di protesta violenta. Nella provincia di
Gansu invece il governo ha fatto distribuire a tutti gli impiegati
statali tibetani fuochi d’artificio per un valore di 100 yuan. Alla
richiesta delle autorità di farli esplodere sulle colline in prossimità
dei luoghi di culto molti tibetani hanno risposto invitando la comunità
a disattendere l’ordinanza.
Durante la scorsa settimana, il 10
febbraio, l’Italia ha ospitato per una visita lampo a Venezia
l’autorità religiosa tibetana. L’occasione del viaggio del Dalai Lama
nel capoluogo lagunare è stata il conferimento della cittadinanza
onoraria delle città di Venezia e Roma.
"La situazione in Tibet oggi
è esplosiva" ha commentato il Dalai Lama lanciando contestualmente un
appello a tutti i tibetani, invitandoli ad astenersi da azioni violente
contro la Cina. E proprio in Cina la cordialità dell’Italia non è
passata di certo inosservata: l’ambasciatore cinese a Roma Jang Yu si è
detto profondamente rammaricato per i premi conferiti al Dalai Lama,
chiedendo al governo italiano di prendere immediate misure per
“rimediare al danno apportato alle relazioni tra i due Paesi”. Per
l’ambasciatore Jang Yu le parole e le azioni del Dalai Lama dimostrano
che questi non è solo una figura religiosa, ma un uomo politico
impegnato in attività secessioniste con la scusa della religione.
Non
che forse l’Italia allontani lo spettro di una Cina aggressiva sui
mercati internazionali e nazionali (ormai esiste una classe media
borghese in cui si identificano anche molte famiglie cinesi residenti
in Italia) dietro allo spauracchio Tibet? Forse per cercare di non
capire la Cina ci nascondiamo dietro la causa tibetana? È la
conclusione a cui giunge Francesco Sisci, corrispondente da Pechino per
La Stampa e per la rivista di geopolitica Limes nel suo nuovo libro
uscito alla fine del 2008, edito da Utet: “Cina Tibet Tibet Cina”.
“Esistono
dei problemi reali che l’Italia ha con la Cina” – osserva con IdeeRadio
Francesco Sisci – “Il Tibet diventa così il modo per esorcizzarli e non
vederli. È meglio non nascondersi dietro al dito tibetano”. C’è un
problema molto presente su cui l’Italia deve riflettere, avverte il
corrispondente de La Stampa: “La Cina a casa nostra. Se non avessimo
questo timore della Cina, forse il problema tibetano sarebbe
considerato con un’altra passione”.
Secondo l’analisi condotta da
Sisci, l’Italia e molti Paesi occidentali hanno un’idea sbagliata di
quello che il Tibet rappresenta per la Cina e del problema Tibet in
senso lato. Un dato oggettivo è quello che descrive il rapporto tra
estensione del territorio e numero di abitanti: il Tibet si estende per
¼ del territorio cinese ed è popolato da 6 milioni di persone. “Quale
stato al mondo concederebbe ad una minoranza così esigua un territorio
così grande?” si chiede Sisci.
Il contenzioso Cina-Tibet è di
natura sia religiosa che politica, ma non è facile disgiungere i
problemi per affrontarli separatamente, perché in un certo qual modo si
fondono insieme.