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quello che (non) vedi: doppia vita di un pittore mediocre.

il grande Milo Manara all'opera


Il quadro più brutto che avesse fatto.
Indubbiamente.
Roba accademica: un paesaggio di mare, appena intravisto dalla prospettiva di una collinetta con strani papaveri.
Giallo, rosso, nero, verde, blu.
Il bianco delle nuvole.
Un tredicenne avrebbe concepito lo stesso soggetto.
La realizzazione tecnica, poi, non aveva picchi di originalità.
Il quadro più brutto che avesse fatto.
Indubbiamente.
Come per ogni sua realizzazione, però, era solito disporre la tavola in orizzontale, a una distanza di 6/7 metri.
Scrutarlo, un occhio chiuso.

Era convinto che qualsiasi cosa dovesse essere contemplata da quella distanza.
Non meno di 5 metri.
Anche un culo, una tetta, non sarebbero più stati gli stessi a distanze inferiori.
Le cose, come al solito, dovevi guardarle da lontano. Scordarti di farne parte.
Solo così le avresti potute vedere “belle” o “brutte” o “così così”...

Aveva deciso che lo avrebbe messo in cornice e appeso al muro in camera, accanto al letto.
Nei giorni successivi si riproponeva di rimettere mano ai pennelli e così di sostituire nel giro di pochi giorni quell'obbrobrio.
E così se lo era appeso in camera.
Due o tre sciacquette di quelle che erano solite frequentare la Casa del Popolo in quel periodo, lo avevano trovato eccezionale.
Lui, un genio.

Seguirono giorni di scarsa fantasia.
La mano ferma, la testa pesante. Non riusciva più a concepire niente.
E il quadro era rimasto lì.
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Accadde una notte. Nel cuore più irraggiungibile del buio.
Un botto secco di vetri, che lo lasciò qualche secondo inebetito, stordito dal sonno, ma abbastanza sveglio per rendersi conto che la cornice a giorno in cui aveva posto la tela aveva ceduto e la lastra di vetro era precipitata rasente al muro, sfiorandolo nel sonno.
Un miracolo. Se solo il letto fosse stato appena qualche centimetro più vicino al muro sarebbe stato investito dalle schegge, che invece erano scivolate, senza far danno, lungo la parete e nell'interstizio tra la parete e il suo corpo.
Si è tastato ben bene nel buio.
Subito dopo il fracasso aveva capito che il quadro era caduto e già si immaginava trafitto da un lunga lastra appuntita, morire dissanguato nel suo letto.
Lo avrebbe trovato la donna delle pulizie 3 giorni dopo.
E invece, era ancora vivo, immune da una morte idiota per causa di un abominevole dipinto.
Gli venne in mente quella frase di Baricco, in “Novecento”.

<<A me m’ha sempre colpito questa faccenda dei quadri. Stanno su per anni, poi senza che accada nulla, ma nulla dico, Fran!, giù, cadono. Stanno lì attaccati al chiodo, nessuno gli fa niente, ma loro a un certo punto, Fran!, cadono giù, come sassi. Non c’è una ragione. Perché proprio in quell’istante? Non si sa. Fran!. Cos’è che succede a un chiodo per farlo decidere che non ne può più?>>

Il mattino dopo, si mise a raccogliere i cocci.
Sempre più si riteneva un miracolato.
E allora decise di ripigliare in mano la sua vita.
Disdisse un appuntamento con la sciacquetta di turno e ne prenotò uno in un centro estetico.
Si sarebbe ripulito come si deve. Svuotò quel che restava di un Jack Daniel's nel lavandino e si fece un'ultima canna.
Mentre raccoglieva le schegge di vetro schizzate ovunque, sentì una fitta sotto il tallone e maledì di aver svolto l'operazione con le infradito.
Una scheggia infame conficcata sotto il piede. Classico.
Al diavolo! Sarebbe andata via anche la ferita, previa disinfettazione ossigenata.
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Non fu così.
Stranamente, dal taglio che si era procurato, non smise di uscire sangue.
Usò persino una barretta coagulatrice che nonno buonanima usava per i tagli di rasoio.
Niente.
Sangue. Discreto, ma persistente.
Andò avanti qualche giorno: almeno 10 paia di calzini macchiati di sangue e buttati via, prima di decidersi ad andare da un medico.
Seguirono giorni di esami e controlli.

Il responso finale fu morbo di von Willebrand, una disfunzione di una proteina che regola i meccanismi di coagulazione del sangue.
In alcuni casi limite può portare a forti emorragie di organi interni. Così, di punto in bianco.

Fran!

La prese in tempo e l'arte, quella con “a” minuscola, gli salvò la vita.
Due volte.

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