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lastampa.it
Camilleri rievoca la sua infanzia nella Sicilia Anni 30: la biblioteca paterna, le letture dai fumetti di Mandrake e Gordon Flash al sovversivo Malraux, per cui da balilla diventò "comunista"
ANDREA CAMILLERI
Io cominciai a leggere prestissimo. Ero figlio unico, e cominciai a leggere più che altro per noia, perché mia madre mi proibiva di uscire con i miei compagni di scuola, autentici delinquenti ai quali devo tutto della mia formazione intellettuale e professionale. Erano figli di carrettieri, figli di scaricatori del porto, perché sono sempre andato nelle scuole pubbliche, che trovo estremamente formative, e ho voluto che le mie figlie andassero nelle scuole pubbliche, che i miei nipoti andassero nelle scuole pubbliche, ecc.
Allora la medicina non aveva fatto i progressi che ha fatto oggi, per cui gli infelici miei nipoti vengono vaccinati e quindi sono esenti da tutte quelle malattie infantili che io invece regolarmente mi beccavo, essendo di gracile costituzione. Ma era fantastico, perché passavi dodici giorni, due settimane, a letto, coccolato, non andavi a scuola, c'era 'sta meraviglia che la radio, essendo un mobile spaventoso - a valvole, intrasportabile - non si poteva portare in camera da letto; la televisione non era stata inventata, quindi non potevi fare altro che leggere. Esauriti i fumetti dell'epoca, avventurosi (Mandrake, Gordon Flash, porca miseria, l'agente segreto X9, scherziamo?), esauriti Cino e Franco, esaurito il Corrierino dei Piccoli, esaurito l'Audace... che facevi?
Un giorno dissi disperato a papà: «Papà, posso leggere un libro della tua biblioteca?». «Va benissimo, leggili!». «E quali?», autocensurandomi. Papà mi disse: «Tutti». Sapevo che aveva libri proibiti: Pitigrilli, Mario Mariani, all'epoca messi all'indice. E così il primo romanzo che lessi, a sei anni e due mesi, non lo dimenticherò mai più. Fu La follia di Almayer di Conrad.
IL MIO ASINO ROSSO
Io sono diventato antifascista prima che il fascismo cadesse e ce n'è voluto, perché mio padre era fascista, squadrista, e aveva marciato su Roma.
Non avete idea di come le letture aprano il cervello.
Nel 1942 mi capitò che mio padre comprasse un libro. Questo libro, miracolosamente sfuggito alle maglie della censura fascista, si chiamava La condizione umana ed era di André Malraux. Io lessi quel libro e la notte dopo mi venne la febbre: non sto esagerando, mi spuntarono i puntini sulla faccia. Masse di cellule cerebrali credo che si spostarono. Capii che i comunisti erano persone come noi, cioè lo capii da quel libro, che tutto quello che mi era stato detto sui comunisti era assolutamente falso.
Mio padre, come segretario del Fascio, durante i tempi di crisi terribili dal 1942 all'inizio del 1943, distribuiva 5 lire settimanali ai disoccupati. Non sapevo spiegarmene la ragione, ma la distribuzione di quelle 5 lire mi umiliava profondamente. Mi pareva una cosa che non stava né in cielo né in terra, che un regime come quello fascista, che io avevo amato nella mia infanzia, si riducesse a fare l'elemosina. Mi pareva una cosa talmente assurda, talmente pazza, da farmi schierare completamente dalla parte di quelli che ricevevano l'elemosina.
E allora, siccome mi capitò di (è una storia lunga) non voler più fare le assemblee del sabato fascista in divisa, riuscii ad avere tramite mio zio un certificato in cui si diceva che ero malato di cuore e non potevo partecipare. Assieme ad altri due amici (anche loro esonerati, uno aveva un finto male al piede...) ci intendemmo a vista: Gaspare Giudice - che poi diventerà il maggiore biografo di Pirandello - e un altro.
Ci chiamò il federale e ci disse: «Va bene, voi però dovete lavorare». «Va bene, andiamo a lavorare».
«Dove volete andare a lavorare?».
A me venne in mente: «In tipografia!»
E andammo a fare i tipografi, gli apprendisti tipografi, nell'unica tipografia che allora c'era ad Agrigento, e si componeva ancora a mano. Allora, avendo a disposizione una tipografia, ci venne in mente di fare un giornale: «Signor Federale, camerata, vorremmo la carta per fare un giornale di diffusione fascista tra le scuole».
Lui ci diede la carta e facemmo il giornale, che si chiamava L'asino. Nell'Asino io scrivevo l'articolo di fondo, politico, ispirandomi alle letture dei mensili dei Guf fascisti, che però erano tutti fascisti di estrema sinistra, in quanto questi articoli erano a firma Pietro Ingrao, Amendola, non so se mi spiego...
Un giorno il professore di religione mi disse: «Il vescovo ti vuole parlare».
«A mia?».
«Sì, ti vuole parlare. Domani mattina alle 7,30 ti aspetta».
«Perché alle 7,30?».
«Perché alle 8 ti manda a scuola».
Andai dal vescovo. Mi disse: «Figlio mio, - aveva sul tavolo i quattro numeri dell'Asino, - ho letto i tuoi articoli. Chi ti dice queste cose?».
«Non me le dice nessuno».
«Come le sai?».
«Le leggo».
«Dove le leggi?» .
«Le leggo nelle riviste fasciste...».
«Hai mai letto Marx?»
Io sapevo chi era ma non l'avevo mai letto, mai.
«Sai, figlio mio, tu sei comunista».
Mi sentii spaventato a morte, e non avevo ancora letto Malraux, capisci?
«Ma che dice?».
«Ti vorrei parlare un'altra volta».
«Va bene, quando vuole...»
Poi mi capitò tra le mani Malraux e dissi: «È vero, ha ragione il vescovo... Comunista sugno! E non lo sapevo».
Ma non lo potevo dire.
IL PASS DI PIRANDELLO
A casa mia si parlava un misto di dialetto e italiano. A scuola ti obbligavano a parlare italiano, perché il dialetto per il regime fascista era un fatto riduttivo dell'unità nazionale, quando invece tutti parlavamo il dialetto, voglio dire i piemontesi il piemontese, i toscani il fiorentino - anzi no, per l'amor del cielo, mi perdonino i toscani: i fiorentini il fiorentino, i senesi il senese e via di questo passo.
Ma a casa parlavamo in dialetto e in italiano. Quand'è che si parlava in dialetto e quand'è che si parlava in italiano? Questa è la domanda che mi sono posto quando ho incominciato a scrivere.
Un giorno analizzai una frase che mia madre mi aveva detto quando avevo diciassette anni: mi aveva dato le chiavi di casa e io tornavo tardi la notte. Mi disse: «Figghiu mii, vidi ca tu, si nun torni, iu nun rinescio a pigghiare sonnu. Si iu nun sento 'a porta ca si chiui ca vena a dire ca tu turnasti, 'un m'addurmisciu. Resto cull'occhi aperti vigliardi. Allora, pi' favuri, nun mi fari curcari addormisciri tardi, torna presto, e se questa storia dura ancora, io ti taglio i soldi che ti do, e tu mi spieghi che fai fino alle due di notte?».
Porca miseria, dissi, guardate un po', la prima parte di 'sto discorso è la mozione degli affetti, la seconda parte interviene il notaio, la giustizia, il commissario di pubblica sicurezza, il legalitario. Dunque, la lingua italiana, che è nata come lingua notarile, torna a essere lingua istituzionale al momento della minaccia.
E su questo ho cominciato a scrivere.
Supportato poi da Pirandello; un giorno scoprii uno scritto meraviglioso di Pirandello della fine dell'Ottocento, che dice: «Di una data cosa, il dialetto ne esprime il sentimento, della medesima cosa la lingua ne esprime il concetto», che è favoloso come pass ricevuto da Pirandello per scrivere a modo mio.
"Io mi ricordo" in dvd
La testimonianza di Andrea Camilleri, che qui pubblichiamo in anteprima, è tratta dal dvd che accompagna il libro Io mi ricordo, un cofanetto in uscita da Einaudi Stile Libero (e 24). Fonte di Io mi ricordo è la Banca della memoria, un progetto nato nel 2008 per iniziativa di Lorenzo Fenoglio, Franco Nicola, Luca Novarino e Valentina Vaio, ricca di oltre duemila interviste video pubblicate su www.bancadella memoria.it. Nel libro, a cura di Giacomo Papi, sono raccolti brani di 70 storie (40 nel dvd di 92 minuti) di gente comune, dall’agricoltore al minatore, dalla sarta al postino, dall’insegnante al meccanico, dall’ebanista all’imprenditore, dal camionista al giardiniere. Nell’introduzione, Papi racconta come è nata l’idea («A nessuno, almeno in Italia, era ancora venuto in mente di associare video digitale e memoria nella convinzione che i ricordi della gente comune potessero avere un valore e interessare qualcuno») e pone domande non «celebrative». Ad esempio: siamo sicuri che «la contemplazione del passato è salvifica»? O non esprime anche «l’incapacità di sopportare il presente e l’impossibilità di immaginare il futuro?». E su questi temi interroga Mario Monicelli, Asor Rosa e Alessandro Portelli.